LA
VERITA’ SU MAASTRICHT
Gianni De Michelis (1996)
Su
Maastricht sono fiorite ormai troppe leggende che ci fanno perdere di vista il
senso di quel progetto destinato a cambiare il volto dell’Europa.
È
perciò necessario ricostruire criticamente la storia del Trattato sull’Unione
Europea, anche per capire quali conseguenze
esso avrà per il nostro futuro. E per rendere chiaro a tutti che se Maastricht
dovesse fallire, non sarà solo un arretramento parziale: l’intera costruzione
europea minaccerebbe di collassare, con effetti che non voglio nemmeno
immaginare. A questo scopo vorrei qui portare il contributo della mia
testimonianza, come responsabile della politica estera italiana negli anni
decisivi (1989-1992) per la concezione e la definizione del Trattato di
Maastricht.
Il
missile di Delors
Il
cuore del Trattato di Maastrichtè
senza dubbio la moneta unica europea.
L’idea
di Delors, quando nel 1984 diventa presidente della Commissione, è di utilizzare la moneta unica come strumento per
l’integrazione politica europea. Delors rovescia il ragionamento di Spinelli:
mentre i federalisti classici puntavano tutto sulla costituzione politica – con
il risultato di scatenare il fuoco di sbarramento degli Stati nazionali –
Delors considera che il modo migliore per avvicinare l’integrazione politica è
di approfondire e rendere irreversibile l’integrazione economica e monetaria.
Se Spinelli era un massimalista, Delors appare come un minimalista, perché
parte dal basso, presenta i progressi nel processo integrativo come
completamento del Mercato comune. Ma l’obiettivo è e resta identico: l’Europa
unita.
Delors
concepisce infatti il progetto di integrazione europeacome un missile a tre stadi, ciascuno dei quali
esprime la spinta sufficiente per passare a quello successivo. Primo, l’Atto
unico (1986), con la conseguente creazione del Mercato unico; secondo, la
moneta unica, sancita dal Trattato di Maastricht (firmato l’11 dicembre 1991),
da realizzare per tappe entro il 1999; terzo, l’integrazione politica europea,
con una configurazione istituzionale ancora da definire, ma in qualche modo
collocata a mezzo fra federalismo e confederalismo. Dunque un processo
schiettamente politico, che si presenta come inscritto in una logica
economicistica per meglio resistere agli attacchi degli avversari
dell’integrazione.
Quando
il progetto di unione monetaria viene sottoposto al Vertice europeodi Madrid (giugno 1989), la signora Thatcher scopre il gioco di Delors e apre il fuoco di
sbarramento, di cui lei stessa sarà la prima vittima. Del resto, già la
direttiva sulla libera circolazione dei capitali, approvata a Hannover nel
giugno del 1988, implicava il superamento del Sistema monetario europeo e la sovranazionalizzazione
della politica monetaria.
Oltre
che dagli inglesi, obiezioni vengono da paesi piccolicome la Danimarca e il Portogallo, mentre Francia,
Italia e Germania guidano il fronte del sì. In quel momento, si noti bene,
Delors parla solo di Unione economica e monetaria e non di unione politica, ma
è evidente a tutti che la messa in comune di uno dei simboli fondamentali della
sovranità – la moneta – avrebbe significato un passo quasi irreversibile verso
l’Europa politica. Nessuno sa, a questo punto, se le obiezioni degli
anti-europeisti o degli scettici potranno essere superate.
Lo
scambio geopolitico
Lo
scenario cambia completamente nel semestre successivo. Il
crollo del Muro di Berlino sconvolge
gli equilibri mondiali. Già al Vertice straordinario di Parigi (novembre 1989)
si delinea quello che sarà lo scambio geopolitico implicito nel Trattato di
Maastricht: l’Europa dà via libera alla
Germania per la riunificazione in tempi rapidi, ottenendo come contropartita
l’europeizzazione del marco.
Di
fatto la moneta unica (poi denominata euro) sarà il marco– nessuno ha interesse a che valga di meno – con la
differenza che a governarlo non sarà la Bundesbank, composta solo da tedeschi,
ma la Banca europea, del cui consiglio di amministrazione i tedeschi saranno
solo una delle componenti. Nessuno, all’epoca, lo dice pubblicamente, ma fra
noi è pacifico che questa è la posta in gioco. Senza capirlo, è impossibile
ricostruire la vera storia di Maastricht. Soprattutto, non se ne possono vedere
le implicazioni geopolitiche.
Dal
novembre 1989 fino alla notte di dicembre del 1991, quando nella cittadina olandese di Maastricht
variamo il Trattato, la questione tedesca domina i nostri pensieri e i nostri
negoziati. La questione è molto chiara: o la Germania resta in Occidente anche
dopo essersi annessa la Rdt, oppure slitta verso il Centro e oscilla
paurosamente fra noi e la Russia. Alla fine, la Germania accetta di integrarsi più
strettamente in Europa, rinunciando persino alla sovranità sul marco a una data
fissata (1° gennaio 1999), pur di garantirsi l’appoggio dei partner alla riunificazione.
Vorrei
sottolineare questo punto, spesso trascurato,
anche perché la vera trattativa si svolgeva al coperto, circondata dal segreto
più assoluto: la riunificazione tedesca non sarebbe stata possibile senza il
consenso dell’Europa. Non è dunque vero che la partita con la Germania fosse
giocata unicamente da Unione Sovietica e Stati Uniti, con l’appendice delle
altre due potenze vincitrici della seconda guerra mondiale, Francia e Gran
Bretagna. Non è nemmeno vero che gli americani spingessero per concludere
subito l’unificazione.
No,
gli unici che avevano fretta erano i tedeschi.
I quali sapevano benissimo che noi europei potevamo stopparli. Quanto meno,
potevamo ritardare l’unificazione. Per fortuna, siamo stati abbastanza
intelligenti da usare il nostro potere contrattuale in modo costruttivo.
Galeotto
fu il caminetto
Ho
un ricordo personale molto vivoche
può illustrare la sorda battaglia fra Kohl e gli altri leader
europei, avvenuta al coperto ma non per questo meno esplicita. Nel novembre 1989,
su invito di Mitterrand,
i leader dei Dodici si ritrovano all’Eliseo per discutere le conseguenze della
caduta del Muro. Deve essere solo un incontro di facciata, una dimostrazione
dell’unità dei Dodici in una fase tanto agitata, senza nessun impegno per
favorire l’unificazione tedesca. Durante la cena, Kohl illustra quello che sarà
poi il suo piano in dieci punti per l’unificazione, che si muove però ancora
entro la cornice di una confederazione dei due Stati tedeschi.
Dopo
cena, ci raduniamo intorno al caminetto per un caffè. Mitterrand al centro, attorno a lui i capi di Stato
o di governo disposti a semicerchio, poi una seconda fila con i ministri degli
Esteri. Io sono seduto alle spalle di Andreotti e Kohl. Mitterrand parla, e fa
subito capire che per lui la questione dell’unità tedesca è un’eventualità
storica, da esaminarsi in un futuro abbastanza imprecisato. Sullo stesso tono
gli interventi degli altri, da Gonzalez alla Thatcher. Kohl diventa sempre più
rosso di rabbia e quando tocca a lui sembra quasi che stia per piangere. Il
succo del suo intervento è questo: voi non potete farmi tornare a Bonn, dal mio
popolo, senza un messaggio chiaro di appoggio dell’Europa alla riunificazione
tedesca.
È
emozionatissimoperché capisce che sta rischiando di restare
a mani vuote.
Io
so che dopo Kohl tocca ad Andreotti.
Allora, dalla sedia dov’ero appollaiato, mi chino verso di lui e gli bisbiglio
in un orecchio: «Presidente, adesso tutti si aspettano da te la stoccata
finale. Sanno benissimo come la pensi sull’unificazione tedesca (per inciso,
Andreotti veniva da una riunione della Nato in cui aveva avuto uno scontro
molto forte con Kohl, n.d.r.). Ma qui hai un’occasione unica. Qui
non bisogna badare alle proprie idee, ma alla politica. Proprio perché tutti
sanno come la pensi, se tu apri uno spiraglio a Kohl le tue parole varranno
doppio. Io e Fagiolo (diplomatico, all’epoca stretto consigliere di De
Michelis, n.d.r.) abbiamo preparato una frasetta per fissare la
posizione italiana. Con tutte le cautele diplomatiche, questa frasetta dichiara
che l’Europa auspica e promuove l’unificazione della Germania. Niente di
definitivo, ma è ciò di cui Kohl ha bisogno per superare l’impasse».
Andreotti
coglie al volo l’idea e legge quella frasetta,
immortalata poi nel comunicato finale. Gli altri sono presi in contropiede. Se
Andreotti, che notoriamente ama tanto la Germania da volerne due, dà via libera
a Kohl, è difficile non tenerne conto. Di colpo l’impasseè superata e il
vertice si chiude con un esplicito appoggio della Comunità all’idea della
riunificazione tedesca. Credo che Kohl non abbia dimenticato quel momento e che
il nostro buon rapporto con i tedeschi nasca anche di lì.
È
da allora che si comincia a disegnare il compromesso fra Germania ed Europa, che cambia completamente la logica originaria di
Maastricht. La moneta unica non basta più, bisogna aggiungervi la parte
politica, perché la Germania deve essere integrata sempre più strettamente in
Europa. È una conseguenza inevitabile dello stravolgimento degli equilibri
internazionali. Una Germania più grande, liberata dai vincoli derivanti dalla
sconfitta del nazismo, rischierebbe di squilibrare la costruzione europea.
Ricordo
ancora l’impressione che farà a tutti,
anche agli americani, il vertice Kohl-Gorbačëv del luglio 1990, nel Caucaso,
quando il cancelliere tedesco sembra trattare da pari a pari con la
superpotenza sovietica e si presenta dai russi con un ricco assegno e strappa
il loro sì alla Germania unificata tutta nella Nato. È finita la Bundesrepublik
di Bonn, comincia quella di Berlino. Di questo Delors e noi ci rendiamo
perfettamente conto, sicché acceleriamo il passo e modifichiamo sostanzialmente
la strategia.
L’11
febbraio 1990, durante il vertice della Csce a Ottawa, viene concepito il negoziato 2+4 (le due Germanie
più le quattro potenze vincitrici) sull’unificazione tedesca. Ho uno scontro
con Genscher, che strilla: «Voi italiani siete fuori del gioco!». Certo, siamo
fuori del 2+4, ma siamo invece dentro, e con un ruolo trainante (dal 1° luglio
l’Italia è presidente della Cee) al negoziato parallelo che deve portare la Rdt
dentro la Comunità europea.
Una
condizione di cui i tedeschi hanno assolutamente bisogno e che dà all’Europa, e
anche a noi italiani, un certo peso contrattuale. Si tratta di portare con un
negoziato fra i più veloci nella storia un paese di 16 milioni di abitanti
dentro a una Comunità che ha impiegato sette anni di trattative per incorporare
Spagna e Portogallo, tutto sommato paesi già diventati democratici. Il miracolo
si compie tra giugno e settembre del 1990.
Forse
non tutti ricordano che per un solo giorno, il 30 settembre 1990, noi siamo stati una Comunità a Tredici, avendo
accettato l’ingresso della Germania orientale come entità strutturale a sé
stante. Occorre ricordare che ancora all’inizio del 1990, l’anno
dell’unificazione tedesca (1°.ottobre), molti non credono che il processo sarà
così rapido. Ma già nel febbraio 1990 io traccio su un foglietto, durante il
Vertice di Ottawa, i due possibili percorsi dell’unificazione, di cui il più
veloce prevede la conclusione entro sei mesi (due meno di quelli poi
effettivamente necessari).
Ci
rendiamo conto che siccome Kohl deve affrontare le elezioniin ottobre ha un interesse vitale ad arrivarci con la
Germania unita. Sicché ora spinge per un’unificazione al galoppo. Noi italiani
siamo svelti a capire che il tempo stringe. Bisogna incardinare la nuova
Germania in Europa prima che i tedeschi si riunifichino e dettino legge.Il
treno che porterà a Maastricht deve correre molto più velocementee portare
contemporaneamente all’allargamento (prima la Germania dell’Est, dopo il
Duemila altri Stati dell’ex blocco sovietico) e all’approfondimento.
L’allargamento lasciando l’Europa com’è significa distruggerla. Vuol dire
importare i germi della disintegrazione e lasciare che corrodano le nostre
istituzioni comuni e i nostri Stati. Su questo siamo d’accordo con Delors e con
gli altri partner, a cominciare dagli stessi tedeschi.
Tanto
che già il 20 aprile, al Vertice di Dublino,
per la prima volta viene approvato un documento ufficiale del Consiglio dei
ministri europei che parla di unione politica. Si comincia a delineare anche la
necessità di una politica estera e di sicurezza comune. Gli inglesi, che pure
vorrebbero dare priorità all’allargamento dell’Europa, non possono opporsi e si
limitano ad alcune eccezioni e riserve nel merito.
È
il momento di scattare per l’offensiva finale.
Delors, presidente della Commissione, ed io, che in quel momento presiedevo il
Consiglio dei ministri degli Esteri europei, siamo in perfetta consonanza.
Nasce l’idea di chiudersi in conclave noi due con solo i consiglieri più
stretti per definire una prima traccia dei possibili contenuti di quello che
poi sarebbe diventato il Trattato di Maastricht. Lo facciamo all’inizio di
settembre, nel segreto più totale. I tedeschi in quella fase non c’entrano. Nel
week-end trascorso all’hotel Il Pellicano, all’Argentario, riusciamo ad
accordarci su un canovaccio che definisce soprattutto la scaletta di argomenti
da affrontare e le soluzioni di massima da proporre, nel quadro del negoziato
sull’unione politica.
Un’idea
abbastanza fedele del risultato dell’Argentariola si può avere rileggendo il testo del documento che
la presidenza italiana fece circolare qualche settimana dopo (nel novembre) e
che è stato riprodotto in un volume di Rocco Cangelosi. Il risultato più
significativo, poi confermato a Maastricht, è rappresentato dall’indicazione di
un impianto istituzionale a mezza via fra federalismo (caro soprattutto a
Olanda e Belgio) e confederalismo (la nostra preferenza) per l’Europa del
futuro.
Ora
leggo che Delors critica quella politica esterae di sicurezza comune che è senza dubbio il punto
debole di Maastricht. Ma nessuno come Delors conosce le resistenze che
incontrammo nel negoziato del 1991-’92, e quindi le ragioni che ci indussero ad
accettare un compromesso, in parte insoddisfacente, al fine soprattutto di incassare
l’apertura di credito che avevamo nei confronti della Germania. Capisco che
oggi Delors, per ragioni soggettive, si sia un po’ disamorato di Maastricht, ma
all’epoca eravamo d’accordo su tutte le questioni essenziali.
Carli
e i parametri
Negli
ultimi mesi di negoziato, nel corso del 1991,
si accentua il braccio di ferro con i tedeschi sull’unione monetaria. I pallini
di Kohl sono i parametri di convergenza, e l’indipendenza della Banca europea,
soprattutto come garanzia della stabilità dei prezzi. È chiaro che la moneta
unica non si può fare senza un certo livello di convergenza fra le politiche
economiche degli Stati membri. Ma il nostro ministro del Tesoro, Carli, si
batte con forza contro un’interpretazione ideologica dei parametri. «Non ci
sono numeri magici, per cui il 3,1 è male e il 2,9 è bene», ripete ai tedeschi.
Non
è un caso che i quattro parametridi
cui oggi tanto si discetta sulla stampa non siano inclusi nel testo del
Trattato, ma siano collocati in un protocollo aggiuntivo. Questo vuol dire che
gli organi dell’Unione possono interpretarli senza che questo debba comportare
una modifica del Trattato e quindi la necessità di passare per una nuova
ratifica da parte dei parlamenti nazionali. L’unico criterio rigido, su cui
l’accordo è generale, è quello che riserva l’ingresso nella terza fase
dell’unione monetaria ai soli paesi che abbiano mantenuto stabile per almeno
due anni il rapporto di cambio della propria con le altre monete europee.
Carli
ed io siamo convinti, allora, che l’Italia possa entrare da subitonel gruppo di paesi che avranno per primi la moneta
unica. Non c’è, insomma, nessun tentativo di escludere a priori nessuno, tanto
meno l’Italia. Semmai, fino all’ultimo c’è un tentativo tedesco di rendere non
vincolante la decisione sulla moneta unica. Nelle versioni preparatorie del
Trattato si lascia aperta la possibilità di cambiare idea all’ultimo momento.
Ma
su nostra iniziativa passa invece, nel testo finale, la norma vincolante, che impegna tutti a fare la moneta unica a partire
dal 1° gennaio 1999. Questo aspetto oggi viene trascurato, ma è fondamentale.
Se qualcuno, ad esempio la Germania, non volesse più fare la moneta unica,
dovrebbe rinnegare il Trattato di Maastricht, dovrebbe far saltare per aria
l’Unione europea. E verrebbe meno allo scambio, di cui Kohl è sempre stato
perfettamente cosciente, fra unificazione tedesca ed europeizzazione della
Germania.
Alla
prova della Jugoslavia
L’accordo
di Maastricht viene siglato pochi giorni primache la Germania, violando le regole del gioco, imponga
ai suoi partner il riconoscimento accelerato di Slovenia e Croazia. Si può
speculare a lungo sulle ragioni che spingono Kohl e Genscher ad abbandonare la
linea di prudenza che loro stessi hanno inizialmente sostenuto, d’accordo con
noi europei, con gli americani e con i sovietici. È un duro colpo per l’Europa.
Non
è vero però, come sostiene qualcuno, che i tedeschi ci ricattino, minacciando di far saltare Maastricht se non
riconosciamo le due repubbliche secessioniste ex jugoslave. La riunione
decisiva si svolge a Bruxelles nella notte del 13 dicembre 1991, cioè due
giorni dopola firma del Trattato. Genscher annuncia che la Germania
riconoscerà in ogni caso entro Natale Slovenia e Croazia, come annunciato
pubblicamente da Kohl qualche giorno prima.
Avendo
partecipato a quella riunione, ricordo che la mia impressioneè che francesi e tedeschi siano d’accordo a essere in
disaccordo. Genscher e Dumas fanno il gioco delle parti, ma in realtà i
francesi non hanno nessuna intenzione di bloccare i tedeschi. Devono mantenere
una posizione di facciata, in omaggio all’opinione pubblica, ma certo non si
battono strenuamente contro i riconoscimenti.
Van
den Broek, presidente di turno, e io a nome dell’Italiacerchiamo di rabberciare una posizione comune, per
evitare che l’Europa alla prima grande prova si spacchi. E ci riusciamo. Fra
l’altro, rinviando di quattro settimane il riconoscimento europeo di Slovenia e
Croazia diamo al mediatore dell’Onu Vance il tempo necessario per disinnescare
la mina dei territori croati tenuti dai serbi della Krajina. Il compromesso
imposto da noi a Tud-man lo costringe a congelare per anni una situazione che
vede un terzo del suo territorio in mano serba, in cambio del riconoscimento,
fra l’altro condizionato.
Nella
riunione di quella notte io spiego che non trovare una posizione comunesarebbe esiziale per l’Europa. Che cosa sarebbe successo
infatti, in caso di disaccordo? La Germania, il Belgio, la Danimarca e forse
l’Italia avrebbero riconosciuto le due repubbliche, mentre gli altri sarebbero
rimasti alla finestra, sancendo una spaccatura verticale fra i Dodici e
permettendo alle varie parti ex jugoslave di giocarci gli uni contro gli altri.
Maastricht sarebbe morto a due giorni dalla nascita.
La
migliore delle Europe possibili
È
facile criticare Maastricht con il senno di poi. Ma qual era l’alternativa? Noi decisori non ci muoviamo
in uno spazio astratto. Dobbiamo restare con i piedi per terra, calcolare costi
e benefici delle diverse opzioni. Resto convinto che il Trattato di Maastricht,
con tutti i suoi difetti, fosse la migliore soluzione possibile all’improvviso
riemergere della questione tedesca.
Con
la dissoluzione dell’impero sovietico noi eravamo a un bivio. Una strada ci riportava indietro all’Ottocento, alla
logica dell’equilibrio delle potenze. L’altra, la strada dell’integrazione, ci
proiettava verso il Duemila. Abbiamo scelto questa seconda strada, forse più
difficile, certo più ambiziosa. Lo scambio geopolitico fra unificazione tedesca
e stretta integrazione della Germania in Europa, sancita dall’europeizzazione
del marco, era l’unica opzione realistica e coerente con i nostri interessi.
Avremmo
forse dovuto rallentare l’unificazione tedesca?Mi pare azzardato sostenerlo. L’opinione pubblica non
avrebbe capito. Sarebbe stato inoltre molto pericoloso per il mantenimento
della pace. Concretamente: che cosa sarebbe successo se al momento del
tentativo di golpe in Urss, nell’agosto del 1991, la Germania fosse stata
ancora divisa, con centinaia di migliaia di soldati sovietici pronti a
intervenire? Ricordo che quel lunedì 19 agosto ero in Jugoslavia, sul lago di
Ocrida, per un incontro con il primo ministro Marković, il quale mi disse:
«Stasera devo rientrare a Belgrado. Se il colpo di Stato in Urss riesce, mi
fucilano…».
Un
altro esempio: la guerra del Golfo, all’inizio del 1991. Se non avessimo risolto la questione tedesca per
tempo, difficilmente avremmo potuto costruire quel fronte compatto, compresi in
buona misura gli stessi sovietici, che liberò il Kuwait e impedì un’estensione
del conflitto all’intero Medio Oriente, mettendo a rischio persino l’esistenza
di Israele.
Il
successo di Maastricht, e quindi la regolazione definitivadella questione tedesca, sarà deciso nei prossimi
anni, quando si tratterà di portare a termine l’unione monetaria per poi
proseguire, sullo slancio, verso una più stretta integrazione politica senza di
cui l’allargamento a est sarebbe un disastro. L’unificazione europea è un
processo. Per sviluppare l’integrazione noi dobbiamo stabilire delle procedure,
le quali a loro volta, essendo applicate, creano la consuetudine e hanno un
effetto autorafforzante.
Io
credo che con Maastricht noi abbiamo messo in moto un meccanismo che rende alla maggioranza dei tedeschi più
conveniente stare dentro l’Europa che tentare nuove avventure solitarie. La
fuoriuscita dal processo di integrazione europea è diventata per la Germania
molto più costosa. Basta questa considerazione, credo, per valutare
l’importanza storica di quel Trattato, che prima o poi dovrà sfociare
nell’integrazione politica del nostro continente.
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