Dopo Yalta, l’Europa senza bussola e le due Zitelle Europee
Per secoli il Vecchio Continente è stato un teatro di guerre cicliche: ogni dieci anni, un nuovo conflitto riaccendeva le rivalità tra imperi francesi, britannici, spagnoli e austro-ungarici. Non fu la maturità dell’umanità a mettere fine a questa spirale, ma l’atomica nelle mani delle potenze vincitrici della Seconda guerra mondiale. L’arma assoluta impose, suo malgrado, una tregua lunga quasi mezzo secolo.
Prima di Yalta le aristocrazie europee si scambiavano territori come fossero pedine, rinsaldando alleanze tramite matrimoni dinastici che, proprio come nel titolo del film Parenti serpenti, finivano spesso per produrre nuovi scontri. Con gli accordi del 1945, invece, il mondo si divise in due blocchi e il Consiglio di Sicurezza dell’ONU — dominato dalle potenze vincitrici — congelò per decenni gli equilibri globali.
Era un mondo teso ma non manicheo. In Occidente si poteva essere comunisti purché si accettassero le regole del gioco: Nato, democrazia liberale, riconoscimento dell’ordine europeo. La politica era conflittuale, ma non polarizzata come oggi.
La caduta del Muro di Berlino spense l’utopia comunista e accese un’altra speranza: quella di un’Europa finalmente unita, pacifica, prospera. Ma venne a mancare anche il freno che aveva contenuto il capitalismo finanziario, costretto, durante la Guerra fredda, a non alienarsi i ceti popolari per evitare derive filocomuniste. Negli anni Novanta, senza più contrappesi ideologici, la finanza globale trovò nuove terre da colonizzare. L’Europa, priva di alternative sistemiche, divenne terreno fertile.
Le guerre, come quasi sempre nella storia, tornarono a bussare alla porta del continente per motivi economici: la Jugoslavia esplose, erosa da nazionalismi e interessi esterni, cancellando l’unico Paese comunista non allineato a Mosca. La Nato intervenne, sebbene nata come alleanza difensiva, per evitare diciamo un massacro intraeuropeo.
Il crollo dell’ordine di Yalta lasciò un vuoto ancora oggi presente. Nel frattempo emergono nuovi protagonisti: i BRICS, la Turchia, l’Iran, l’Arabia Saudita, mezzo continente africano. Gli Stati Uniti, soprattutto nella fase gestita dal partito democratico post-1990, hanno spesso agito come se potessero governare il mondo da soli: le “guerre per esportare la democrazia”, l’instabilità del Medio Oriente, l’espansione della Nato verso Est — avvenuta quando la Russia era ancora un attore indebolito — hanno contribuito a ridefinire gli equilibri.
Oggi l’Europa si divide perfino sulla guerra in Ucraina. Ogni volta che Washington e Mosca sembrano avvicinarsi a un’intesa, Londra e Parigi — le due ex potenze nucleari del continente — fanno muro, temendo un accordo che le escluda. E rilanciano allarmi sulla minaccia russa, alimentando una corsa al riarmo che non tiene conto delle differenze tra Kiev e i Paesi Nato. Le due capitali si comportano come “zitelle permalose”, incapaci di accettare che il loro ruolo di governatori del mondo sia ormai un ricordo.
Dietro le quinte pesano interessi economici: ricostruzione dell’Ucraina, gestione delle terre rare, nuove filiere energetiche. Ma in Europa nessuno sembra rendersi conto che il tempo delle rendite di posizione è finito. Il mondo non è più quello del 1945 e nemmeno quello del 1991.
L’Unione Europea, così com’è, è una grande burocrazia senza anima. Decide lentamente, poco e spesso senza spiegarsi ai cittadini. In un mondo iperconnesso e competitivo, questo significa irrilevanza.
Ecco allora la questione vera: o l’Europa diventa una federazione politica, con un governo scelto dai suoi cittadini, o rischia la disgregazione e un lento scivolamento fuori dalla storia. Londra e Parigi — e con loro tutto il continente — devono capire che non si vive di ricordi. E che senza un’Europa unita, nessuno di noi conterà più qualcosa nel nuovo ordine globale.
Roberto Giuliano

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